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Quaderni Etno 10: I figli del vento - seconda par.

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Quaderni di Etnomusicologia n.10 : I figli del vento – (seconda parte).

Tratto da “Musica Zingara: testimonianze etniche della cultura europea” di Giorgio Mancinelli, MEF Firenze Atheneum, premio letterario “L’Autore” per la Saggistica, 2006.

Testimonianze di culture etniche.

“Quando stanchi saranno odio e rabbia, /
quando ormai si saranno /
dissanguate le liti nella guerra, / allora sì, allora tu potrai /
suonare di nuovo / con più ardente slancio.”
(M.Vorosmarty)

“Io dico le mie pene cantando, / perché cantare è piangere./
Io dico la mia gioia danzando, / perché danzare è ridere.”
(anonimo zingaro)

Dicono le parole di alcune canzoni zingare, ma più che le parole contano i sentimenti. Liriche che evocano lontane contrade, la natura con le sue stagioni, i suoi doni, le sue privazioni; uno, cento, mille amori incontrati e perduti, le privazioni e le ostentazioni di tutta una vita, forse mai capita, per lo più oltraggiata. Come si sa, la vita nomade è dura, ruba i momenti più belli in cambio di una parola che oggi ha perduto in parte il suo significato, ma che tuttavia conserva il suo antico fascino: ‘libertà’. Ed è questa libertà che l’estro zingaro si appella anche quando ‘improvvisa’ la sua musica che, a differenza di altre, presenta una adattabilità ad altre, pur mantenendo fede a formule originarie rivelatesi indissolubili.

È difficile stabilire cosa gli Zingari abbiano lasciato o smarrito, tantomeno quantificare l’entità di assimilazione della musica degli ‘altri’, durante il lungo corso delle loro peregrinazioni. Una prima risoluzione riconosce agli Zingari la capacità di aver conservato una propria cultura musicale che presenta temi ricorrenti comuni a tutti i gruppi, malgrado i cambiamenti sociali ne rendano precaria, oggi più che mai, la conservazione. In effetti essi, dotati di un profondo senso musicale ma privi di cultura letteraria, riescono ad esprimersi con straordinaria precisione ed eleganza attraverso il linguaggio musicale alla cui radice si rintracciano almeno due fonti di ispirazione: una basata sulle arie popolari apprese e, l’altra, che sorge dall’estro individuale. A queste si aggiunge uno straordinario impulso mnemonico che permette loro di suonare “a orecchio” e con estro creativo, un motivo appena ascoltato, arricchito di sovrastrutture improvvisate.

Tutta la loro vita si riflette nella loro musica: lenta e monotona come le le loro giornate solitarie, ardente come i loro amori, bacchica come le loro danze, sonora come la loro voce, che si leva nel canto. Tuttavia il motivo più ricorrente nel canto come nella musica, è però lamentoso, malinconico come il loro spirito. Languide, selvagge o semplicemente allegre che siano, le loro melodie, eseguite al violino o al flauto, cantate con un fil di voce o con l’intonazione rauca nell’inimitabile manierismo zingaro, si rivelano interessanti pur non avendo un autentico valore musicale in senso assoluto di forma e armonia. Sono per lo più composizioni spontanee, provenienti da luoghi d’origine lontani tra loro, apprese in quei paesi attraversati durante il loro continuo viaggiare e da cui derivano alcune differenze formali tipiche dello stile.

È stato detto che solo un vero zingaro può valutare la purezza del proprio stile conoscendo le condizioni esterne, sprigionatasi dall’intimo rapporto lirico del proprio essere a contatto con la natura, con i luoghi attraversati, che in certo qual modo hanno contribuito alla sua formazione. Allora ècco che qui un violino ruba la voce a un usignolo, un ‘nai’ richiama il mistero della montagna; lì una chitarre intona un canto che si ispira alla luna, una donna zingara esegue una danza antichi attorno al fuoco. La loro eco rievoca ricordi millenari, sentimenti ‘ancestrali’ pur sempre nuovi, che vanno a infrangersi come un’onda del mare sulla scogliera; come l’uomo di oggi contro la vita senza senso di domani: “Allora che importa il paese, fratello, prima di tutto ci sono gli uomini e le melodie ... sotto le iucche danza la vita” (Sandra Jayat)

Non va dimenticato che la professione dello zingaro musicante, ancor oggi straordinariamente diffusa, è presente da secoli in numerosi paesi, con differenze formali quali, ad esempio esistono fra la musica dei Gitani e quella degli Tzigani; la diversa esecuzione di una danza nella Grecia antica e la stessa danzata oggi in Bulgaria; il nome diverso dato a uno strumento medesimo; l’impostazione diversa di un canto, ecc. Così accade per le diverse forme musicali come il Jazz, il Flamenco, la Czarda, la Rapsodia, tutti termini che suggeriscono la musica di altri popoli piuttosto che quella degli Zingari. Eppure noi sappiamo, e possiamo rilevarlo, quanto in esse ci sia l’estro zingaro che, si rivela, nel soliloquio intimo e segreto del suo essere. È questo un fare musica creativo che può soltanto essere immesso in una cultura preesistente, ancor più che riceverne gli influssi. Infine, che può essere utilizzato, adattato, finanche mistificato, ma che risentirebbe in modo decisamente negativo l’intromissione di formule precostituite.

Il vero artista è per lo zingaro solo colui che prende il motivo della canzone o la sola melodia come l’epigrafe di un poema, o forse come il sommario di un discorso fra sé e lo strumento, fra sé e la sua musica, e su questo filo conduttore, mai del tutto perso di vista, esegue fioriture, cesellature come arabeschi che ricordano, ipoteticamente, la loro provenienza, il luogo ad oriente delle loro origini oscure. È ancora con l’aiuto delle scienze applicate, in questo caso l’etimologia, la scienza che studia l’origine linguistica delle parole, che oggi siamo in grado di situare geograficamente, seppure in modo approssimativo, i luoghi in cui gli Zingari hanno soggiornato e tracciare le linee itineranti delle loro migrazioni, iniziate pressoché al sorgere delle prime civiltà arcaiche, verso la fine dell’età neolitica, tra il 3500 a il 3000 a.C.

Un lento e costante procedimento in questo senso che portò, in quel lasso di tempo, al sorgere delle iniziali forme di agricoltura dando così luogo ai primi insediamenti umani e, ad una ulteriore suddivisione sociale a cui si fa corrispondere l’inizio della composizione delle differenze etniche e la suddivisione della popolazione in tribù nomadi e sedentarie. Quelli che prima erano pastori o guerrieri e si spostavano da un luogo all’altro alla ricerca di nuovi pascoli per i propri animali, o alla ricerca di un bottino da razziare, divennero stanziali e agricoltori e, solo alcuni gruppi, tra i quali appunto gli Zingari, conservarono l’antico costume nomade all’interno del vasto territorio indiano. Una prima migrazione zingara in epoca storica è attestata al XV secolo, riguardante lo spostamento di alcune tribù nomadi perseguitate dai cavalieri del Gran Tamerlano che avevano invaso l’India. L’esodo, che secondo alcuni era già iniziato tra il VI fino al’ XI secolo, si svolse molto lentamente dalla ricca e fertile valle dell’Indo, attraverso la Persia, dove alcuni gruppi sopravvissuti sono ancora oggi chiamati Luri o Luti.
In Europa queste genti arrivarono almeno in due correnti migratorie che, partite dall’Hinducush si spostarono in seguito nel vicino Pakistan e nei territori delle città di Harappa e Mohenio Daro., per poi inoltrarsi in Siria e da lì in Arabia e in tutto il bacino nord-est del Mediterraneo. Successivamente un ramo delle grandi migrazioni si spostò verso l’Anatolia raggiungendo i Balcani, mentre, un altro, si spinse in Egitto, per poi spingersi la parte sud-ovest della costa dalla Libia fino al Marocco. Fatti questi che, secondo alcuni studiosi, spiegherebbero il perché del frequente trovare parole greco - bizantine soltanto in alcuni gruppi e parole turco-arabe in altri.

Anche se oggigiorno sono davvero pochi gli Zingari che mantengono un carattere nomade, il nomadismo rimane il retaggio più importante che questo popolo ci comunica, alla base di tutte le ‘primitive’ forme di società, sulle quali si sono formati alcuni dei ‘caratteri originali’ che vengono riconosciuti come base della loro cultura, come: l’accattonaggio, derivato dall’essere originariamente un popolo raccoglitore; lo spostarsi sui carri come mezzo di trasporto; il modo di vestire colorato e fantasioso; l’uso di cucinare i cibi in un determinato modo tipico zingaro; fare alcuni ‘mestieri’ insoliti, tuttavia necessari alla loro sopravvivenza. Inoltre, l’attaccamento alla famiglia, l’anelito alla vita libera, l’essere indipendenti, evocare una sorta di nostalgia per una terra ‘edenica’ lasciata o, forse, sconosciuta, l’incuranza del tempo che passa, la ricerca instancabile d’una felicità inconseguibile e un certo modo di esternare un grande desiderio di comunicare, di divertire, di vivere, in cui principalmente si rispecchia il loro vivere.

Modo che i nomadi generalmente conducono quasi per una sorta di ‘imprinting’ più che per vera e propria tradizione. Ed è ciò che, in qualche modo, da un senso a quanto tramandato dalle generazioni passate a quelle che noi oggi possiamo osservare, e che si rivela in tutto ciò che essi trasmettono in senso artistico e culturale: dallo stile di vita di chi è sempre in viaggio, alla sete dell’ignoto e del pericolo, così come nella poesia e nelle canzoni, come nei racconti orali che rappresentano la loro inequivocabile ‘voce’ e la loro particolare ‘visione’ del mondo che in essi esprimono. Anche se è all’aspetto più ‘arcaico’ del loro misticismo che dovremmo guardare per poter maggiormente comprendere la loro ‘arcana’ fonte di religiosità, che va ben oltre la capacità di sopravvivenza fin qui dimostrata e il disadattamento profondo, che pure hanno contribuito a popolare la loro esistenza di spiriti e demoni.

Una religiosità colma di un senso quasi angoscioso del soprannaturale che gli Zingari hanno conosciuto attraverso i millenni della loro nomade esistenza, passati nella ‘nostalgia’ di una Terra che, verosimilmente, li ha generati e poi abbandonati e che, in qualche modo, riemerge nello spirito collettivo cui sono estremamente legati e, seppure, abbiano ben radicato il concetto di non appartenere a nessuna terra. In assenza di una cultura ‘scritta’ e, nel voler trovare una risposta plausibile al quesito primario: “esiste oppure no una cultura zingara?”, rispondo con l’ausilio di alcune discipline moderne che – a mio avviso – ben si rapportano al campo di ricerca specifico, quali: l’etnologia, l’etologia e, non in ultima, l’ecologia umana; branchie dell’attuale antropologia che ci permettono di studiare la specie umana nel suo complesso evolutivo, con l’intento – scrive Pietro Rossi (1) – “di riconoscere il valore delle forme di organizzazione sociale e dei costumi di tutti i popoli, anche di quelli tradizionalmente denominati ‘primitiva’.”.

Scrive Constantin Brailoiu (2): “In Occidente più ci si avvicina all’epoca presente, più si è ostacolati dalle difficoltà di una discriminazione troppo obiettiva e più si è portati, di conseguenza, a concepire il ‘popolo’ come un’entità puramente amministrativa; come un complesso umano composto dalle medesime forze storico-economiche e spirituali. Altri replicano attentamente che tratti materiali e morali ‘primitivi’, più antichi di quanto possiamo immaginare, sopravvivono nel nostro presente. La definizione, per un certo verso decisamente valida, rischia di essere errata se riferita al popolo degli Zingari, per il quale invece si potrebbe usare, al pari di tante altre: ‘mitici’, per quell’alone di storicità che li accomuna ai nuclei più antichi.”

Accettata questa definizione ‘letteraria’, dalla quale del resto siamo necessariamente partiti in questa ricerca, si pongono in primo piano alcune domande alle quali va data una risposta approfondita, al di là delle barriere imposte dalla lingua e malgrado i cambiamenti inevitabili dello stato sociale abbiano resa precaria la conservazione:

Come si è tramandata per così lungo tempo la lingua orale degli Zingari, senza il supporto seppure successivo di una grammatica scritta?

Come ha potuto, una cultura orale atipica, il cui adattamento ad altre culture presenta un aspetto così prevalente, conservare forme linguistiche originali?
Volendo riconoscere agli Zingari un proprio carattere etnico di una qualche forma ‘originale’ e che abbia una portata culturale come ‘valenza comunicativa’, questo non può che essere individuato nel linguaggio universalmente riconosciuto, secondo per antonomasia alla lingua parlata, che è la musica. Capace da sola di legittimare gli Zingari, per aver dato impulso alla propria affermazione culturale – musicale che si presenta ricca di sonorità diverse in temi comuni ricorrenti, uguali per i molti gruppi etnici in cui essi si distinguono. Ma se lo sconfinare geograficamente e l’ulteriore dilagare nelle ipotesi ci porta a non poter tralasciare alcun indizio che sia di un qualche interesse, tuttavia non possiamo ancora parlare di una ‘identità musicale’ riconoscibile come specificamente zingara.

È però rilevante l’apporto dato dalla moderna musicologia che ci permette di ampliare l’orizzonte del problema, attraverso lo studio della musica nella sua evoluzione creativa e la sua comparazione con altre culture musicali. Scrive Béla Bartòk (3): “Si chiama ‘folklore comparato’ quella disciplina scientifica che sta fra la musicologia e il folklore, e che è ormai largamente praticata dagli studiosi della musica popolare. Scopo di questa disciplina è quello di stabilire, in base a confronti fra le raccolte dei vari popoli affini o vicini, i ‘tipi originari’ presenti nelle rispettive culture musicali, e quelli che sono gli ‘elementi comuni’, per pervenire quindi alla rilevazione ed al riconoscimento delle reciproche influenze sopravvenute fra le diverse forme canore e musicali.”

Scrive ancora Constantin Brailoiu (4): “Altri però respingono ogni modello scientifico (..) dichiarando ‘popolare’ tutto ciò che a loro sembra tale, e cioè – secondo l’esempio del Davenson – tutto ciò che produce ‘una certa impressione di allontanamento dal proprio ambiente e di caratteristico esotismo che fa provare quel fremito che l’incanto dell’inatteso provoca’. Ma per fortuna trattasi di sporadici casi che tendono all’isolamento delle culture, lontani dalla cultura propriamente detta ed intesa come un tutt’uno musicale.”

Nel suo accreditato ‘The World of Music”, Frank Harrison (5) mette a punto il metodo della ricerca comparata in campo musicologico e ne fissa le coordinate di base: “sull’uso e la sua funzione”, “l’osservazione strutturale”, “la comparazione multipla” e “l’influenza della comunicazione semantica.” Spetta però ala “Semantique Musicale” elaborata da Alain Daniélou (6), musicologo e orientalista francese, l’aver definito i fondamenti della teoria comparativa e delle interazioni musicali. Tuttavia, quanto più gli orizzonti si estendono ad altre discipline specifiche, più l’obiettivo finale si sottrae alla sua individuazione. Per quanto la sociologia applicata alla musica prevalga sulla critica musicale, ancora non si è giunti a una definizione ammissibile. Non rimane che dare una ulteriore risposta a una domanda apparentemente semplice:

Perché nella musica zingara non si rintracciano elementi fortemente individualizzanti?

Una risposta plausibile sta nel definire l’intuito musicale zingaro come una risorsa culturale propria. Come ricercatore, volendo io evidenziare alcune analogie altresì presenti nello studio comparativo della loro musica, sono venuto a contatto di una funzione simbolica tipica zingara, propedeutica alla loro vita religiosa. Per dirla con C. G. Jung (7): “... il simbolo differisce sostanzialmente dal segno o dal sintomo, e dovrebbe essere inteso come l’espressione di una percezione intuitiva”. Ma come anche dice Augusto Romano (8): “Scrivere intorno alla musica significa fare della mitologia; ma la musica, quando ci accade, si sottrae alla mitologia, perché è mito in azione”. Pertanto possiamo affermare che è possibile affermare non tanto cosa la musica è, ma cosa si racconta intorno alla musica. Questo in fine è il compito che mi sono prefisso con questa mia ricerca.

Pertanto, il musicista zingaro – è stato detto e ribadisco – “...cava l’essenza della sua arte da se stesso” e “che solo un vero zingaro può valutare la purezza del proprio stile, e riconoscere al suo interno quali contributi siano utili alla sua formazione.” Anche per questa ragione, e poiché non sono ben definite le condizioni che l’hanno determinata, noi, i gadjè, il ricercatore non zingaro, non può essere certo di raggiungere l’obiettivo che si è preposto: di dare, cioè, una definizione attendibile della musicalità zingara, ma può solo avvicinarvisi, con possibilità di errore, pari a quella dimostrata nel paragonare molta della musica convenzionale ad essa.

Se, come ha affermato E.T.A. Hoffmann (9) nel n.4 di “Kreisleriana”: “...la musica dischiude all’uomo un regno sconosciuto, un mondo che non ha nulla in comune con il mondo sensibile esterno che lo circonda e in cui egli si lascia alle spalle tutti i sentimenti definiti da concetti per affidarsi all’indicibile”, ne deduciamo che allora l’indicibile è quel mono che non si presta a essere raccontato con le parole e che può essere detto solo con la musica. Si ha qui la situazione paradossale per cui qualcosa di inesprimibile si nasconde nell’espressione che un linguaggio palese contiene; per così dire, una sorta di linguaggio occulto che fa della musica zingara, un’arte non imitativa o riproduttiva, rivolta non già verso il mondo esterno, ma verso la più intima soggettività. Di qui la preferenza accordata alla musica strumentale rispetto alla vocale, come quella che meglio corrisponde alla propria vera essenza.

L’autore che più di ogni altro ha approfondito questo concetto, studiandone la radice archetipica e svelandone il carattere simbolico, è il musicologico e psicologo francese Michel Imberty (10) che fondamentalmente ha rivolto la sua analisi alla struttura musicale di forme ‘arcaicizzanti’ , allo scopo di definirne gli stili ne rivelarne il senso. In quanto ‘arcaica’ l’esperienza musicale si configura come esperienza di una realtà psicologica profonda, motivante la creatività: “Una struttura che non si apre in forma univoca, ma piuttosto come compresenza di potenzialità anche contraddittorie che spesso l’interpretazione tende impropriamente a ‘normalizzare’ e che invece assume la caratteristica ‘virtuosistica’.” Nella quale ritroviamo, a livello talvolta inconscio, quegli ‘arcaismi’ che sono tipici dello spirito creativo umano, in grado di definire un singolare ‘stile’ che possiamo definire: “...la storia anticipata o ritrovata di una parte essenziale dell’uomo.”

Nel suo “Trattato della musica”, scritto ancor prima dell’Anno Mille, successivamente tradotto dall’arabo in francese da Rodolphe d’Erlanger con il titolo “La musique arabe”, il filosofo islamico Mohammed Abu Nasr al Farabi (11), afferma: “L’uomo è capace di comporre, c Mohammed Abu Nasr al Farabi (11)reare musica in virtù di attitudini innate, si può dire per istinto, per una spinta interna che fa parte della sua natura e che lo spinge a produrre alcuni suoni, quando si sente lieto e, altri invece, quando è triste e addolorato, quasi per esaltare e rendere ‘poetici’ i suoi sentimenti. Allo stesso modo, quando ha l’intenzione di stimolare la mente e dare maggior forza espressiva a una composizione poetica, il mezzo più efficace consiste non solo nell’usare una melodia corrispondente al significato delle parole, ma anche, altri motivi dotati della speciale capacità di provocare o calmare una data emozione (..) per impadronirsi totalmente dell’immaginazione dell’ascoltatore: condurlo a comprendere meglio la poesia.”

A dirla ancora con E.T.A. Hoffmann: “Se consideriamo che la musica ha per oggetto l’infinito...”, di fatto, veniamo a trovarci di fronte a una rivelazione che può essere valutata come ‘religiosa’. Giacché, per mezzo suo, entriamo in contatto con gli “arcana dèi”, altresì possiamo meglio osservare quello che è l’aspetto, non secondario, di una ‘religiosità’ intrinseca di un fare musica che non conosciamo. Se per accezione una musica può ritenersi creativa, e lo è in genere tutta la musica, questa non può esimersi dall’essere autentica. Similarmente possiamo affermare che la musica degli Zingari è creativa senza ombra di dubbio. Nell’ascoltare la musica zingara infatti, l’orecchio del musicista colto, coglie subito la stranezza degli intervalli che è portato a considerare come una inesattezza nell’esecuzione; così com’egli è disorientato dalle sue modulazioni, che gli appaiono rozze, contrarie ai suoi dogmi musicali.

Va qui considerato che ci si trova in assenza di una cultura musicale vera e propria, e cioè scritta; per cui la ‘non conoscenza’ specifica della scala musicale’ o dell’utilizzo di uno strumento particolare, pone lo zingaro nella dimensione insolita, quantomeno inesprimibile a parole. Ma se – come è già stato detto – essere difficile stabilire cosa gli Zingari hanno abbandonato o smarrito della loro cultura musicale, tantomeno è possibile quantificare l’entità di ciò che hanno verosimilmente assimilato dai popoli che hanno conosciuto nel corso delle loro lunghe peregrinazioni, al di là delle manomissioni e delle facili contaminazioni a cui l’odierna musica fonografica ci ha abituati. È per noi più facile incorrere in approcci sconsiderati o quanto mai basati su esclusivi interessi nazionalistici; così come anche si può essere indotti a trascurare per negligenza o superficialità di ricercatori, questo o altro supporto musicale.

Ma non si tratta qui di stabilire forme di compatibilità tra sistemi musicali diversi o, viceversa, di appartenenze etniche geograficamente distinte. Bensì di approfondire il rapporto esistente fra le diverse culture e le loro interazioni musicali, che solo uno studio approfondito e comparato può individuare, al fine, di un appropriato riconoscimento e di una corretta collocazione all’interno delle diverse culture musicali esistenti. Scrive Bruno netll (12): “...che l’etno-musicologia mostra chiari segni di sviluppo, tuttavia tarda ancora a divenire una etnologia della musica, poiché rimane legata troppo saldamente a propositi musicologici, cioè alla descrizione e comparazione delle componenti musicali. (..) Ora, essa può comprendere la musica in quanto fatto culturale solo se cessa di trattarlo come fenomeno a se stante, e la situa in una globale visione di concetti estetici, della filosofia, del temperamento, condotta di un gruppo etnico che giustifica appunto l’etnologia. Si rischia altrimenti di vedere questa disciplina divenire indifferente o insensibile ad un aspetto essenziale della vita culturale dei popoli che essa studia, mentre alcune culture risentiranno della limitatezza del musicologo e dell’insufficiente qualificazione musicale dell’etnologo.”

Qual è ‘dunque’ la vera musica degli Zingari?

Quella musica misteriosa che si pensa di aver sentito ma che nessuno in realtà conosce, legata com’è a rituali ‘oscuri’ di un’altrettanto ‘oscura’ tradizione. Al punto che opinioni contrastanti arrivano finanche a negarne l’esistenza. D’altro canto, come si può pensarla diversamente se non è mai stata trascritta, e perché? Contrariamente a quanto si crede, la storia stessa del popolo zingaro, cosa comune a quasi tutti i popoli di cultura orale, è ricca di ipotesi e povera di certezze. Nonostante ciò una musica che presenta caratteri comuni ai gruppi Zingari, o perlomeno, di una musica che presenti caratteri comuni ai gruppi compresi nell’arco geografico ove questi vivono e si spostano, e cioè le aree che hanno visto le grandi migrazioni storiche, esiste; anche se nessuno si è preso la briga di trascriverla e documentarla.

Per quanto ciò rappresenti uno dei problemi insoluti della moderna etnomusicologia, la ‘ricerca sul campo’ ha tuttavia confermato la sua estrazione popolare, d’appartenenza alla tradizione del singolo gruppo che, verosimilmente, l’ha prodotta e preservata nell’anonimato. Recentemente, e soprattutto in seguito alla presa di coscienza di alcuni attenti ricercatori, si è giunti a riconoscere alla musica zingara alcune prerogative che le venivano confutate in passato, quali, ad esempio: un certo ‘virtuosistico’ uso degli strumenti musicali, la conturbante ‘leggiadria’ delle melodie, il fuoco ‘passionale’ esibito nei ritmi a ballo e un indubbio ‘carattere timbrico’ nell’intonazione della voce, entrate in seguito nella tradizione musicale di molti popoli d’Europa.

Per Franz Lizst (13) se il musicista ‘non zingaro’ rimane spesso “...interdetto di fronte a quegli intervalli inusitati nell’armonia europea”, così come in presenza della “fioritura lussureggiante eminentemente orientale”, o alle “modulazioni così aspre”, al contrario, “un uditore che abbia il vantaggio di conoscere la musica e di essere impressionabile”, si lascia prendere dalla “libertà e ricchezza dei ritmi, dalla loro molteplicità e duttilità” presenti in tutta la musica zingara. La Società Etnografica Ungherese ad esempio, che doveva riparare allo ‘scandalo’ causato dal suo libro “Des Bohémiens et de leur musique en Hongrie”, si trovò a far fronte ad un vero e proprio dilemma procurato dalle affermazioni dello stesso Lizst: “...se la musica tzigana poteva dirsi musica ungherese oppure no?”. Il senso era chiaro, almeno per il grande maestro che, con la sua affermazione, riconosceva una grande affermazione della musica zingara passata alla musica ungherese e viceversa.

Lo stesso interrogativo che venne affrontato in seguito da Béla Bartok che, in “Scritti sulla musica popolare” si trovò ad affrontare il problema durante la Conferenza del 1931, non portò a nessuna presa di posizione sostanziale. Il dibattito sulla questione rimase aperto come del resto lo è ancora oggi. Lo stesso Franz Lizst se ne fece portavoce, restituendo agli ungheresi una sorta di primato, lodando il pubblico del suo paese per aver permesso agli Zingari di sviluppare pienamente i loro doni: “Senza gli ungheresi, che ne sarebbe stato dell’artista zingaro? – si chiese – dandosi poi come risposta, che “l’arte zingara appartiene agli ungheresi, come un figlio a sua madre; perché senza di loro, non sarebbe mai esistita”. Fatto è che molta della musica zingara è entrata con successo a far parte della musica ufficiale dell’Ungheria.

Tanto era sconvolgente la risposta che un altro musicologo ungherese Emilio Haraszti (14) si trovò a dichiarare: “Non esiste una musica zingara indipendente (..) lo zingaro aveva indubitabilmente assimilato la musica del paese che l’ospitava.” Negando con ciò, e fuor di ogni dubbio, una prevalenza della musica zingara su quella ungherese. Parole queste che suonarono come una prima conferma, forse quella che tutti cercavano: la dimostrazione pratica che, sotto l’archetto dello zingaro, la musica ungherese aveva preso il suo più autentico slancio. Quale che sia, la conclusione di questa diatriba andò avanti per lungo tempo, quasi che oggi interessa ormai relativamente. Successivamente Béla Bartòk nel voler riaffermare la supremazia ungherese sulla musica zingara, si servì della cosiddetta “Raccolta di Bartalus”, una raccolta musicale formata di centinaia di melodie, come testamentario della creatività del popolo ungherese, ma che, in realtà, non conteneva più di 300 o 400 canti veramente popolari, a fronte delle migliaia esistenti sul territorio. E d’altra parte, il modo con cui erano trascritte, o notate che dir si voglia, era talmente approssimativo, che non si poté fare a meno di criticarlo severamente.

L’esempio qui riportato non è tuttavia il solo ad aver rappresentato nel tempo la linea di partenza di ogni futura ricerca, ripreso a modello negli altri paesi d’Europa. Problemi analoghi si riscontrano ogni qual volta ci si sofferma a considerare la musica di un paese o di un altro, più o meno investiti dalla migrazione zingara. Venelin Krustev (15) relativamente alla musica di Bulgaria, porta ad esempio un’ampia documentazione ‘anonima’ che riconduce la sua tradizione al Medioevo. Egli scrive: “Tradizione che rappresenta una speciale riserva nell’arte della musica epica e nell’arte della danza di questo paese, eredità della più antica cultura dei popoli Balcani. Che a loro volta l’avevano appresa dall’eco giunto fino a loro di due civiltà classiche, quella ellenica e quella bizantina. Alle quali si è andata sovrapponendo la più dinamica delle culture medievali: la slava, sopravvivenza dei relitti della più antica cultura contadina autoctona.”

Indubitabilmente la cultura autoctona slava ha avuto una grande influenza anche sulla cultura musicale del popolo zingaro. Si dovrebbe qui ascoltare la musica suonata e cantata dai vari gruppi ‘vlax’ o prendere parte a una ‘slava’ o una ‘paciv’, le due feste dei Rom presenti in quest’area, ed apparirà subito evidente come la musica, e soprattutto la musica ‘a-ballo’ , sia fortemente pregna di questa influenza. Questo anche se non si segnalano eccessivi stanziamenti di gruppi di Zingari sul territorio bulgaro, ma solo esigui e sporadici passaggi. Molto più presenti invece nella ex Jugoslavia dove fornito il supporto ad una musica che risente della cultura orientale, in particolar modo quella legata ai Rom-Xorané stanziali della Macedonia.

Altri gruppi minoritari distaccatisi dalle grandi correnti migratorie sono presenti in paesi più lontani, quali la Finlandia e la Svezia, dove la musica zingara di derivazione slava, è quasi esclusivamente costituita da canzoni, sebbene la musica ‘strumentale’ rappresenti da sempre l’unico mezzo per la comprensione reciproca, utilizzata da tutti i gruppi presenti sul territorio. Il repertorio comune comprende, oltre ai canti di protesta indirizzati verso le istituzioni, melodie popolari sullo stile russo, antiche romanze e canzoni di carattere religioso, e rappresenta quanto di più originale sia da accreditarsi alla cultura musicale zingara.

La situazione si presenta diversa in Russia dove elementi zingari sono presenti in canti popolari tramandati oralmente e perpetuati nella tradizione popolare. A una attenta osservazione il contenuto dei “Canti popolari russi” raccolti da Vladimir J. Propp (16), apparentemente chiusi dentro un contegno tutto contadino, gode invece di una straordinaria libertà interiore. Gigliola Venturi (17), che ne ha redatto la prefazione italiana, scrive: “..fin dal primo impatto sembra disegnarsi già tutta la trama della canzone e dei suoi allegorici, il mondo autenticamente vissuto giorno per giorno, con una freschezza che il tempo non ha offuscato. Tutti gli avvenimenti più essenziali della vita appaiono fra le righe, sempre superati da una vena umoristica nelle canzoni tristi, melanconica in quelli allegri (e questo bilanciarsi fra gioia e mestizia si riflette anche nella musica, quando udiamo note vivaci accompagnare un testo di contenuto triste). Prerogativa questa che sembra affermare il significato più segreto della vita della zingaro, e che gli permette di riconquistare la sua dignità di uomo libero o di gettarsi alla vita del brodjaga, del vagabondo, nelle lontane terre dell’Oltre Volga e nelle steppe del Don.”

Si colloca qui un’immagine un po’ bohémien dello zingaro che avevamo forse dimenticata, soprattutto per quell’atmosfera che si ricrea alla presenza della sua musica: sottolineata da una profonda e nostalgica malinconia, lenta e monotona come una giornata passata in solitudine e, improvvisamente, scattante come un gesto ieratico e sonoro, passionale come solo l’amore sa esserlo, ardente e sensuale come solo la sua danza, consumata davanti al fuoco che divampa, può essere: “folgorata a momenti da sprazzi di straordinaria vitalità.”

Se si pensa che la grande capacità musicale degli Zingari è giunta a noi nella sola forma orale, ha già di per sé dell’incredibile. Sta di fatto che la musica zingara, da sempre impressa nella memoria di chi la concepisce, è verosimilmente portata dal vento o, altrettanto suggerita dalle ‘forme’ di un desiderio o di un amore che langue. Così come languida è l’espressione poetica i cui versi sciolti sono spesso dolenti come lo è la loro stessa vita. I canti zingari a cui per lo più si fa riferimento presentano alcune lacune formali; non in ultima quella più negligente della mancanza di informazioni riguardanti la data e il luogo dove sono stati raccolti, oppure del gruppo di appartenenza. il lettore deve tener conto, inoltre, della incompletezza di alcuni testi trascritti dalla versione orale, della diversa condizione psicologica e ideologica di chi li ha trasmessi, della possibile errata interpretazione del traduttore nei casi di mancato reperimento degli originali audiofonici, nonché della diversa personalità dell’esecutore.

Relativamente ai testi di canzoni che sono parte del patrimonio della canzone russa, Vladimir J. Propp (18) fa la seguente considerazione: “Per intendere e valutare giustamente la canzone popolare, bisogna tenere sempre presente che i canti creati dal popolo non sono destinati alla lettura. Essi non vanno letti come si leggono le poesie. Per altro non somigliano neppure alle nostre romanze o alle poesie messe in musica dai compositori. Nelle canzoni popolari più autentiche, parola e melodia costituiscono un’organica, inscindibile unità primigenia. Ma anche separato dalla melodia che lo accompagna, il contenuto letterario dei canti risulta così significativo, vario e bello, da meritare uno studio specifico e attento, anche se, infine da un’idea incompleta della natura della canzone.” Lasciando altresì intendere che come spesso la canzone sfocia nella poesia, così la musica le tiene sospese in un ‘idillio’ che le rende universali. Considerazione questa, che dobbiamo far nostra e che possiamo riferire anche ad altre culture di estrazione orale.

Il singolo canto di per sé, ha un valore inferiore se comparato con quello ‘corale’ della grande tradizione russa, anche se, a sua volta, questa è resa più fruibile da un certo decorativismo aggiuntivo comunemente riconosciuto agli Zingari. Indubbia è l’utilizzazione della musica popolare dovuta all’espansione territoriale, crogiuolo di razze e culture diverse, di espressioni musicali originali entrate a far parte della tradizione russa: melodie orientali persiane, tartare e turche, finanche indiane e cinesi che, nel tempo, si sono sovrapposte ad assonanze bizantine della lirica ortodossa praticata in tutto il paese. I compositori russi, affascinati dalle variazioni strumentali, dai contrappunti naturali, dagli arabeschi virtuosistici, hanno saputo trarre raffinate sonorità, melodie eloquenti e ritmi incalzanti ripresi da melodie autoctone o, per così dire ‘acculturate’, prese da quelle tzigano-slave o gitano-andaluse, talvolta suggerite dagli Zingari.

A seconda dell’estrazione dei compositori che, di volta in volta, si sono misurati con le melodie elaborate e trasferite nella forma ‘zingaresca’ così generalmente detta: “una rapsodia per violino solo o accompagnato dalle ampie possibilità di esibizioni e virtuosismi, e per il succedersi, dopo un’introduzione a ritmo lento, di passi vivaci e brillanti”, si è convenuto alla considerazione che gli Zingari non si sono limitati solo al ruolo di suggeritori, bensì in quello di autentici interlocutori musicali. Diffusasi sul finire del Settecento e poi per tutto l’Ottocento romantico, la forma ‘alla zingaresca’ si ritrova in ‘quartetti’ e ‘trii’ entrati nell’esecuzione classica, conosciuta e apprezzata nelle corti europee anche da molti compositori ‘non zingari’, colti dall’interesse verso le ‘altre’ forme di musica.

Scrive Massimo Mila (19): “Tutta la generazione di musicisti del XIX secolo che va da Dvoràk a Berlioz a Lizst, da Bartòk a Kodaly a Schubert a Bhrams, fino ad arrivare in epoca moderna a De Sarasate, De Falla, Strauss, Lehar, Schonberg, si è spinta a trovare un nuovo linguaggio musicale recuperando gran parte del patrimonio musicale popolare.” Vanno qui ricordate le ‘musiche spagnole’ elaborate da Michail I. Glinka, come la ‘Jota Aragonesa’ e ‘Recuerdos de Castilla’ che, a suo tempo, inaugurarono la nuova forma sinfonica basata sulla rassegna fantasiosa di melodie e ritmi popolari che, in seguito, influenzarono gran parte dei lavori orchestrali di Rimskij-Korsakov quali ‘Shéhérazate’, ‘Capriccio Spagnolo’, dal gusto arabo-andaluso; e quelle ancora più orientaleggianti di Aleksandr P. Borodin, come le famose ‘danze polovesiane’ da ‘Il Principe Igor’ e ‘Nelle steppe dell’Asia centrale’, in cui si denotano i profondi vincoli affettivi e culturali che lo legavano a quello specifico tipo di musica.

Si richiama qui l’attenzione sulla figura di Igor F. Stravinskij che, nel Novecento, letteralmente invase la scena mondiale e del quale voglio qui ricordare la raccolta dei ‘Canti popolari russi’ (poco eseguita) e quel geniale capolavoro quale è ‘La sagra della primavera’, riallacciandosi, oltre che compositamente anche semanticamente, ai riti agresti del sopraggiungere della nuova stagione, impregnata com’è del ‘sacro fuoco’ della creatività – quasi che il compositore anelasse a un mistico approccio con gli eventi del sotterraneo e dell’occulto che lo ancoravano alla sua terra russa. Precedentemente Philippe Rameau nel Settecento aveva portato in Francia una nota prematuramente romantica in senso musicale, con le ‘Suites per clavicembalo’, ed esattamente in ‘L’egyptienne’, in cui aveva raccolto un vezzo musicale zingaro.

Già André Campra aveva inserito nel suo famoso ‘Carnevale di Venezia’, rappresentato all’Operà di Parigi nel 1710, una ‘Canzone delle zingare’. Successivamente il grande commediografo Molière faceva intervenire egiziani ed egiziane nella sua opera teatrale ‘Le mariage forcé’ che, entravano cantando e ballando al suono di tamburelli baschi. Una moda che si protrasse oltre il secolo in cui il commediografo introduceva nel II atto del suo ‘Malade imaginaire’ una danza di zingari. Per approdare, infine, all’operetta di Franz Lehar ‘Zigeunerliebe’ (Amor di Zingaro); e con Johann Strauss junior ‘Der Zigeunerbaron’ (Lo zingaro barone). E, infine, nell’opera lirica di Giuseppe Verdi che, ne ‘Il Trovatore’, ambientato nella Spagna del XV secolo, fa cantare un’aria zingaresca sullo sfondo dell’accampamento dei gitani, dove alcuni fabbri battono ritmicamente sulle incudini i martelli, entrata col nome di ‘martinete’ nella forma del ‘Cante’ flamenco.

Georges Bizet fu tra i primi della scuola francese ad ispirarsi al ‘flamenco’ riprendendone i temi nella sua opera più famosa: ‘Carmen’. Ma si vuole che in tempi non sospetti il belga Françoise-Auguste Gevaert, rimasto affascinato durante i suoi frequenti viaggi in Spagna, ponesse particolare attenzione al ‘Cante gitano’ del quale ne studiò la forma. Più tardi i temi zingari apparvero frequenti nelle opere di molti compositori sinfonici e lirici, che si appropriarono dei virtuosismi della musica zingara. Su tutti spicca la figura di Maurice Ravel, colui che meglio di ogni altro evocò la musica zingara di tradizione spagnola nelle sue pagine più belle, inclusi temi e melodie che gli Zingari avevano portato dal lontano Oriente: ‘Pavane pour une enfante défunte’, ‘L’heure espagnole’, ‘Rapsodie espagnole’, ‘Alborada del Gracioso’, ed uno esplicito omaggio agli Zingari con ‘Tzigane’. Ed è ancora Massimo Mila (2o) a scrivere di lui: “Il suo interesse portò infine a tentare un ‘affresco’ nel quale un ritmo costante e monotono viene scelto come base strutturale per una raffinata, incredibile varietà timbrica degli strumenti”. Nacque così il ‘Boléro’ che in breve fece il giro del mondo e che rimane una delle musiche più ascoltate e apprezzate ancora ai nostri giorni.

Claude Debussy (21), pur non conoscendo molto la Spagna, fu profondamente influenzato dalla musica dei Gitanos. Vi si ispirò nelle composizioni ‘La Puerta del Vino’ e ‘Soirée en Grenade’, in cui maggiore si rivela la profonda influenza del ‘Cante Jondo’, per poi giungere al massimo grado della creatività nel poema sinfonico ‘Iberia’, un’opera definita geniale in cui ondeggiano come in un sogno profumi e caratteri dell’Andalusia. È altresì importante ricordare come la moda francese ‘alla zingaresca’ fu nel suo insieme molto sensibile alla musica gitana e a quella ungherese nelle corrispettive forme della ‘sarabanda’ e della ‘czarda’: Séverac, Chausson, Massenet, Lalo, Saint-Saens e lo stesso Ravel, vi trovarono ispirazione per le loro composizioni migliori.

“Sul finire del secolo XIX – riporta una cronaca del tempo – si poté affermare con ammirazione che una musica nuova animava già tutta l’Europa” e che lo spirito zingaro aleggiava sopra di essa. Fu quindi la volta del compositore ceco Antonin Dvoràk, il quale raccolse numerose ‘melodie zingaresche’ che, a loro volta, ispirarono l’altro grande musicista Johannes Brahms. Nelle sue composizioni, però, la tecnica di sviluppo non fui mai condotta a un grado di elaborazione tale da compromettere l’integrità poetica dell’immaginazione popolare, sicché questa, all’interno della costruzione dotta, acquisiva un fascino nostalgico emergendo come richiamo di un mondo originario e genuino.

L’ungherese Johannes Brahms (22) colse nella musica magiara le melodie, i canti e le danze popolari meglio conosciuti nelle brillanti e decorative versioni zingare. Famosi i suoi ‘Zigeunerlieder’ fortemente intrisi della vitalità e dei colori della tradizione zingara. Ripresi, poi, nella forma delle più famose ‘Rapsodie’, in cui dimostra mobilità ritmica e un’ardua virtuosità tecnica che ancora oggi ci ripropongono le misteriose sonorità e le inflessioni melodiche delle orchestre zigane. Sono molto note le sue ‘Danze ungheresi’, eco di quelle melodie decorative zingare raccolte per la strada ed entrare a far parte del folklore popolare ungherese.

Particolare attenzione va rivolta all’etnomusicologo e didatta Zoltàn Kodàly (23), il quale studiò il canto popolare e raccolse il patrimonio musicale della sua terra ungherese. Associandosi con Bartòk in una ricerca che non avrebbe più abbandonato e che va sotto il nome di ‘Corpus Musicae Popularis Hungaricae’, in cui sono raccolti canti e cori zingari elaborati sui modelli del folklore magiaro entrati nel repertorio popolare; così come alcune danze ‘Hungarian Gypsy Dances’ in cui il compositore sublima la ritmica zingara contenuta nella rapsodia ‘Dances of Galànta’.

Anche Béla Bàrtok (24) coltivò un appassionato interesse per il canto popolare ungherese e balcanico. Fu uno dei primi a interessarsi e a studiare la musica araba. Ben presto si avvicinò, sull’esempio di Lizst, al folklore musicale del proprio paese che approfondì metodicamente e scientificamente, ricavandone insegnamenti decisivi anche per la definizione del suo linguaggio compositivo. Ricordiamo qui ‘Sette danze popolari rumene’, caratterizzate da un’energia ritmica quasi ossessiva e da un’armonia quasi ai limiti dell’atonalità, come nelle ‘Sei canzoni popolari ungheresi’ e le ‘Canzoni popolari rumene’, composte entrambe in forma di ‘rapsodia’ per violino e pianoforte in cui si rivela peculiare il fine espressivo sulla struttura, caratteristica del canto popolare “ricostruito non mediante citazioni letterali ma attraverso l’imitazione e la ‘reinvenzione”.

Fine che gli esperti vogliono ‘suggestionato’ dalla musica di Franz Lizst, compositore delle ben note ‘Rapsodie Ungheresi’ nella forma di ‘improvvisazioni’ per piano, in cui si riflette la spontaneità ‘ad effetto’ tipica zingara. Ma, anche, dal ‘Rondò all’ongarese’ di Joseph Haydn e dal più famoso ‘Divertissement à l’hongroise’ di Franz Schubert (25), autore, fra l’altro, di numerosi ‘Lied’ in cui l’ispirazione a temi zingari e ancor più alla figura romantica del “viandante”, appaiono espliciti. Il primo ‘lied’ della ‘Winterreise’ schubertiana comincia infatti con questi versi: “Come uno straniero sono comparso / come uno straniero me ne vado”. E ancora in ‘Der Wanderer” (Il Viandante) conclude così: “Dove sei, amato mio paese? / Il paese che parla la mia lingua, / o terra, dove sei tu? / Io vago silenzioso, infelice, / e sempre mi domando sospirando: dove? / E sempre: dove? / Una voce misteriosa mi risponde: / dove tu non sei, la è la felicità.”

Felipe Pedrell (26) fu tra i primi in Spagna a introdurre lo studio scientifico e sistematico del canto popolare della propria terra ed a individuare e suddividere gli elementi di tradizione popolare da quelli di musica colta che hanno concorso a formare la ‘fisionomia’ e il ‘carattere’ della musica nazionale. L’importanza storica del suo ‘Cancionero Musical Popular Espanol’ del 1958 ne fanno uno dei massimi esponenti della cultura musicale spagnola.
Un particolare contributo lo ha dato da Manuel De Falla (27) che nel 1922, insieme al poeta spagnolo Garcìa Lorca, fu protagonista di un famoso festival del ‘Cante Jondo’, esplicitamente ricorrendo nella composizione al repertorio ‘flamenco’, nella quale però il musicista predilesse lo stile ‘impressionista’ di scuola francese, come nelle ‘Tre melodie per voce e pianoforte’ nel cui ambito diede corpo almeno a un capolavoro classico: ‘Noches en los jardines de Espana’, sorta di poema sinfonico pervaso da una struggente sensualità sonora. E nei ‘El sombrero de tres picos’, ‘La vida breve’ e nel ‘El amor brujo’ con la sua impetuosa e straordinaria ‘Danza rituale del fuoco’, fondamentali del balletto classico spagnolo e, ai quali è legata la fama che lo ha consacrato in tutto il mondo.
Sonorità del resto già emersa nelle ‘Siete canciones populares espanolas’ per voce e pianoforte, in cui la ricerca, sapiente e raffinata della composizione, che si rivelò di straordinaria ‘liricità’ nel suo ‘El retablo de Maese Pedro’ e, in ‘Concierto Madrigal’ per due chitarre e orchestra e, ancora, nella ‘Serenata Andaluza’ seguita dalle ‘Pièces Espagnoles’ in cui il maestro concepì i poli tonali e armonici ancora più prossimi alla ‘tensione flamenca’ interpretata con linguaggio moderno: “ma di un folklore autentico, non manierato, da sembrare quasi inventato”.

Vanno qui ricordati inoltre, compositori di estrazione ‘classica’ che attinsero al repertorio gitano-andaluso profondamente radicato nella cultura spagnola: il raffinato Isaac Albeniz: ‘Suite espanola’, ‘Suite Iberia’; il pittoresco Enrique Granados: ‘Danzas espagnolas’; l’intimistico Francisco Tarrega: ‘Recuerdos de Alhambra’, e Pablo de Sarasate, violinista e compositore, acclamato come uno dei maggiori virtuosi di tutti i tempi, la cui produzione, manierata e teneramente sensuale, sfrutta magistralmente le qualità cantabili e coloristiche del violino nelle così dette ‘Arie tzigane’, rappresentative del ‘patos’ zingaresco e nelle ‘Danze spagnole’, in cui i ritmi andalusi sembrano compenetrarsi magistralmente con quelli tipici gitani. Per non dire di altri strumentisti di grande talento, quali: Andrés Segovia, Joaquin Nin, José Munoz Molleda, Joaquin Turina, Miguel Llobet, i quali hanno trovato nel ‘flamenco’ di origine gitana le sorgenti della loro ispirazione.

Alla luce delle nuove discipline della etnologia comparata, della sociologia applicata e ovviamente dell’etnomusicologia, continuano fervide le ricerche avviate sulla materia musicologica. Importante e a sua volta rivelatore, fu lo studio di A. L. Lloyd (28) sui corrispettivi sociali nell’ambito del ‘Cante’ spagnolo (jondo o gitano) che egli, per primo, introdusse, nel campo della comparazione con il ‘Blues’ americano: “Il Blues come prodotto tipicamente cittadino trova nel Cante una forma musicale speculare corrispondente. Chi ascolta un cantante di flamenco fa un immediato riferimento al ‘modo’ con cui un suonatore di tromba ‘hot’ improvvisa i suoi chorus su di un tema, divenendo sempre più geniale e più caldo nel corso dell’improvvisazione. Le canzoni andaluse non vanno considerate come musica paesana, ma come musica cittadina. Come nei migliori blues, questi canti riflettono la condizione sociale, la schiavitù, la prigionia, la miserabile vita dei bassifondi e della periferia.”

Similitudini si riscontrano anche nella presenza di temi e soggetti ricorrenti tra le ‘prison songs’ e le ‘carceleras’, allo stesso modo che nel blues i temi andalusi sono eseguiti sulla scala naturale della chitarra. I testi qui di seguito riportati, sono quelli originali sui quali Lloyd si è basato per la comparazione specifica:

Esempio di ‘carceleras’:

“A la carse voy / y verlo no pueo / porque no tengo naita que darle, / Mare al carselito. / Probesito es los mineros / La stima e los yo tengo / que se meten en las minas / y mueren sin confesion. / Al ver llora a mi mare / me soltaron los siviles / me soltaron un guantaso / en mitad a las narices.”

“Vado in prigione / ma non posso vederlo / perché non ho nulla da dare, / mamma al carceriere. / Son disgraziati i minatori / e io li compiango / si ammazzano nelle miniere / e muoiono senza confessione. / Quando videro mia madre piangere / i poliziotti mi mollarono, / mi mollarono un pugno / dritto fra le narici.”

Esempi di ‘blues’:

“I sure do hate that wagon, / I mean that old police patrol. / The best that I can wish it, / I hope it falls off in some hole” (Patrol Wagon Blues).

“Chiaro che odio quel furgone, / voglio dire quello della polizia. / Il meglio che posso augurargli, / è di finire in un fosso.”

“Have you heard what that mean old judge has done to me? / He told the jury not to let my man go free / There I stood with my heart so full of misery / He must die on the gallows, that was the court’s decree” (Last Miles Blues).

“Hai sentito cosa m’ha fatto quel vecchio ignobile giudice? / Ha detto alla giuria di non assolvere il mio uomo / E io sono qui col cuore pieno di disperazione / Egli morirà sulla forca, così ha decretato il tribunale della contea.”

È interessante notare come entrambe questa forme siano espressioni urbanizzate di canto e risentano d’una stessa influenza africana trasmessa dagli arabi in Spagna e dai negri d’Africa in America. Allo stesso modo, per i gitani-andalusi come per i bluesman, ciò che infine conta è soprattutto l’emozione, l’espressività propria delle parole. La musica prende spunto da questa emozione che si sprigiona libera nel ‘Cante’ come nel ‘Blues’ stabilendo un evidente rapporto fra ‘jondo’ e ‘soul’, fra gitano-andaluso e negro-americano.

L’internazionalità di questa comparazione ha portato eminenti studiosi a divagare e ricercare un paese d’attribuzione, per così dire, un’area geografica da indicarsi su un Atlante; o forse, soltanto a voler trovare un’etichetta qualsiasi, sotto la quale depositarla e magari reprimerla all’interno di una Enciclopedia. Ma, come si sa, il divagare non aiuta a segnare il punto di alcuna questione e la musica zingara, per le sue peculiarità intrinseche, va considerata dai suoi diretti fruitori, che sono in primis i musicisti che la producono e successivamente gli ascoltatori o chi ne usufruisce per diverse ragioni, che sia l’intrattenimento o la danza o l’intimistico canto.

Quanto detto è così vero che successivamente, in epoca romantica, gli Zingari seppero facilmente adeguarsi alle ‘mode’ musicali in voga, adeguando la loro maestria strumentale alla musica ‘colta’ che si faceva nei teatri di corte e nelle opere di strada, anche dette ‘zingaresche’, spingendosi perfino a recitare ‘parti da zingaro’, la cui testimonianza è qui riportata da Mario Verdone (29), il quale scrive: “La zingarella è una danza ballata sul canto alla zingaresca recitata in brevi scenette di Carnevale, di gusto giocoso, e prese a prestito dai tentativi di predire il destino, fatti da zingare vere per la strada. La zingarella che balla e canta crea col suo stesso personaggio un genere che poi finisce per evolversi in commedia. (..) La zingaresca è registrata particolarmente a Roma e il Bourchard nel suo ‘Voyage’ (1637), nota che nell’Urbe ad ogni angolo di strada si recita una zingaresca”. (..) ‘Er ballo delli Xingari’ è famoso qui, come spettacolo delle carovane di passaggio.”

Anton Giulio Bregaglia (30) affermava e si diceva compiaciuto di questo tipo di azione drammatica, del valersi di astrologi, di sortilegi, incantesimi e ogni sorta di magie, ma anche di giochi di destrezza e di trucchi: “Venivano in scena i personaggi delle streghe, dei falsi negromanti, degli indovini. Ed era un modo in più di approccio vero con il ‘meraviglioso’ di cui si è sempre valso lo spettacolo”. Ed ovviamente il teatro, essendo le zingaresche componimenti recitati nelle fiere, sui carri o nei teatrini di piazza che alternavano le marionette e le ombre agli attori. Prima, dunque, erano semplici canzoni sceneggiate, e solo poi farse con più personaggi.

Con la definizione ‘zingaresca in forma di commedia’ nota ancora Bragaglia, si indica l’evoluzione del genere teatrale e la sua maturità drammatica, dacché, dalla zingaresca il teatro si evolse nella ‘commedia in canzone’, in particolar modo in Spagna nella ‘zarzuela’, nel ‘vaudeville’ in Francia, nell’ ‘operetta’ in Italia e, non in ultima, nel più attuale ‘musical’ dei paesi anglosassoni. Non fanno eccezione i moderni spettacoli con Zingari acrobati e addestratori di animali, fra teatro equestre e finzione in cui, al di là del tempo e della logica, si cede alle seduzioni ‘zingaresche’ da parte di un pubblico avido di libertà perdute.

Va inoltre aggiunto che gli Zingari, pur adeguandosi alle imposizioni della cultura dominante del territorio che li ospita, rimangono per lo più fedeli alle loro tradizioni che adattano a seconda dei casi, alle tradizioni dei popoli che li ospitano. Diverso è invece il rapporto con gli elementi della natura, ai quali gli Zingari riservano particolari attenzioni e che si ritrovano nei loro racconti e nelle fiabe così come nella poesia e nelle canzoni, in ugual misura dei sentimenti che in essi sprigionano. Il vento, il fuoco, la pioggia, la terra, o che siano le distese praterie o i grandi ghiacciai e le fitte boscaglie, sono quasi sempre i protagonisti, fasti o nefasti, delle storie in cui è rappresentato il mondo vegetale e faunistico, osservato in tutte le sue manifestazioni: dall’imitazione dei comportamenti amorosi, ai dolorosi quanto necessari scontri per il dominio; dalla conoscenza dei segreti custoditi nelle erbe officinali per la cura della salute, a quelle da utilizzare in cucina e l’alimentazione.

Una ‘conoscenza’ questa che gli Zingari conservano all’interno del ‘gruppo’ di appartenenza, entrata a far parte del bagaglio di tutta l’umanità, verosimilmente tramandata di generazione in generazione fino ai nostri giorni attraverso vie che sono a noi sconosciute. Così come pure è avvenuto per i manufatti quali: la lavorazione degli utensili, la cardatura del rame, le espressioni artistiche dei monili d’oro, la preparazioni dei cibi e i rituali magici ai quali essi sono legati. Nonché nella costruzione di strumenti musicali e l’esecuzione musicale, cui gli Zingari riservano un luogo nascosto nel cuore. Ed è a questa musica, così ‘piena’ e veramente ispirata che dobbiamo fare riferimento per comprendere le ragioni che la distinguono; si è detto che essi ‘improvvisano’ per se stessi, la cui originalità è racchiusa nel fatto di averla suonata migliaia di volte in luoghi sempre diversi e in diverse occasioni, talvolta con strumenti diversi a seconda del proprio stato d’animo, sempre diverso.
Una musica che tuttavia non ci è dato di conoscere e approfondire perché ‘non scritta’ e che quelli che pure la hanno ascoltata dicono: “Se anche avessimo modo di sentirla non avremmo orecchie per ascoltarla”. Quella che in realtà certamente ci è capitato di ascoltare in alcune occasioni, possiamo dire che ci ha divertiti, che ci ha spinti a danzare, ma che non sapevamo facesse parte di una ‘cultura’ così antica, più del nostro odierno bagaglio culturale. Forse, perché nessuno di noi è mai stato in grado di trascriverla e depositarla in quello che è il bagaglio musicale dell’umanità, ma che gli Zingari, da sempre tengono a mente come ‘conoscenza’ metafisica del tempo, tale da poterla richiamare al proprio ‘presente’ attraverso le vie arcane e misteriose della memoria ancestrale.

Come pure scrive Angela M. Tettamanti (31): “Noi non dovremmo esibirci nelle loro danze, perché non avremmo la stessa andatura”: cioè quella suggerita dal cavallo (mulé) o dal cane che sempre si portano dietro durante i loro spostamenti di nomadi. Semplicemente perché non ne siamo capaci, o forse perché a loro detta: “abbiamo smarrito il senso delle interferenze astrali, il piacere di guardare alla luna come a una compagna frivola e amorosa che ci invita. Così come di lasciarci avvampare dal fuoco della passione, lasciarci scompigliare i capelli dal turbine del vento, lasciare che il corpo vibri col tremito delle foglie, perché abbiamo dimenticato come parlare alla terra, madre tenera e consolatoria che ci stringe fra le braccia la notte e ci preserva e ci accoglie dopo la morte”. Tuttavia dobbiamo prendere atto che se la loro cultura è senza scrittura, noi certo non sappiamo leggere. Come dire che ci siamo persi, abbiamo perso il senso della vita, non rientriamo più nel grande congegno delle sfere celesti, né in quello dello spirito dell’universo che pure ci accoglie e tutti ci anima: loro, gli Zingari che da sempre attraversano il cielo, e noi ‘gadjé’ sedentari e immobili su questa terra ormai senza futuro.

Non rientra nell’intento di questa ricerca affermare una qualche supremazia del musicista zingaro, né che tutta la musica strumentale sia di derivazione zingara. Tantomeno possiamo affermare che lì dove è presente un fattore virtuosistico o una qualche forma di genialità compositiva o esecutiva, queste siano riconducibili in qualche modo all’estro zingaro. Ciò, sebbene, essi abbiano ampliamente dimostrato uno straordinario talento musicale e un acclarato virtuosismo strumentale, assai meno nell’esibizione canora o la danza che, solo in alcuni casi, si è fatta conoscere a livello internazionale. Gli esempi autenticamente zingari sono numericamente pochi se riferiti alla musica sinfonica: F. Szabo (compositore), E. Szervànszky (compositore), G. Cziffra (piano), N. Zabaleta (arpa), A. Karas (zither), E. Zimbalist (violino), e più recentemente jean-jacques Kantorov (violino), Alexander Balanescu (violino), Georghe Zamfir (pan-flute). Più numerosi invece quelli che hanno incrementato le fila dell’easy-listening, del rock e della musica popolare in genere, quali S. Lakatos e Y. Nemeth (lautari), D. Reinhardt (chitarra jazz), e i più recenti The Musicians of the Nile (charcoal gypsies), Orquestra Andalusì de Tanger e Juan pena Lebrian (gruppi a confronto), Acquaragia Drom (gruppo multietnico), Gypsy Kings (gruppo flamenco rock), Burhan Ocal (oriental ensamble), Taraf de Haiduks, Kocani orchestar e Fanfare Ciocarlia (gruppi tzigani).

È invece in crescita il numero dei compositori contemporanei – non necessariamente zingari di estrazione – che hanno dimostrato un vero interesse verso la musica tradizionale, come Goran Bregovic (31) (Bosnia) compositore e arrangiatore, autore di numerose colonne sonore con le quali ha internazionalizzato la musica popolare del suo paese; Anouar Brahem (32) (Tunisia), capace di far convergere la musica d’Oriente e Occidente mediterraneo in un solo strumento, l’ ‘oud’; gli Agricantus (33) gruppo rappresentativo della nuova cultura multietnica e multilinguistica; Stephen Micus (34) (Germania), considerato un ‘guru’ della musica mondiale, conoscitore delle tecniche di molti strumenti tradizionali orientali, alcuni dei quali pressoché sconosciuti in Europa, capace di accalappiare quel ‘suono del tempo’ di cui abbiamo fin qui parlato e riversarlo in una sorta di ‘visione universale’ (tuttavia non globalizzata), in cui la musica si fa narratrice di mondi inimmaginabili e tuttavia possibili futuri.

Ma già altri si affacciano nel panorama della musica mondiale e dichiarano di aver attinto a quell’inesauribile contenitore che è la musica etnica di popoli e paesi, capace com’è di trasmettere stimolanti sorprese: “se solo imparassimo a leggerla”. Ne sono un esempio: Giya Kancheli (Georgia), benjamin Yusupov (Tajikistan), Fikret Amirow (Azerbabaijan), Awet Terteryan (Armenia). Non possiamo qui lasciar passare inosservati i fautori delle ultime esperienze del Jazz, da John Coltrane, Dollar Brand, Paul Motian, The Art Ensemble of Chicago, Dino Saluzzi, Gianluigi Troversi e Gianni Coscia, Kim Hashkashian, Eleni karaindrou, Tomasz Stanko; ed anche Astor Piazzolla, un certo Max Roach e il primo Gato Barbieri; certamente Alice Coltrane e il non trascurabile gruppo dei Kronos Quartet.

Tuttavia c’è dell’altra musica che va pure ascoltata, ed è quella dell’angolo della strada’ altrimenti detta ‘musica metropolitana’. Quella dei corridoi dell’underground, o se preferite ancora delle ‘feste di piazza’, alla quale dobbiamo porgere l’orecchio se vogliamo avere accesso alla musica più autenticamente zingara di cui fin qui si è soltanto parlato, anche se non necessariamente suonata da Zingari. Che è poi la stessa dei trovieri medioevali e rinascimentali che non usavano trascrivere i versi delle giaculatorie o delle ballate o, contrassegnarle con alcuna notazione musicale; ma che pure rispondeva a quella stretta ‘conoscenza’ detta anche ‘ars musicandi’ giunta fino a noi e incorporata negli interstizi musicali della cosiddetta ‘musica popolare’, in cui è raccolto il patrimonio più cospicuo della musica del mondo.

Non ci rimane che approfondirne l’ascolto. A questo preciso scopo ho inserito qui di seguito un’ampia discografia che si spinge oltre la fin troppo etichettata musica etnica, per presentare all’ascoltatore curioso e desideroso di conoscere quegli esempi di musica colta e non, antica e contemporanea, sinfonica e rockettara, che accolgono in sé dichiarate esperienze folkloristiche e popolari, rappresentative delle culture più lontane, talvolta estreme fra loro. Come del resto estrema è l’esperienza che siamo spinti a fare quando per demagogia politica, ci abbandoniamo a negare l’esistenza di una cultura e con essa l’esistenza stessa di un popolo, e affondiamo le nostre rivalse nella negazione della loro libertà, ne facciamo l’oggetto dell’intolleranza razziale, neghiamo ad esso finanche la sopravvivenza coatta.



Note:

1) Pietro Rossi, in Preciado D,. ‘Folklore Espanol’, Studium, madrid 1969.
2) Constantin Brailoiu, ‘Folklore Musicale’, Bulzoni, Roma 1978.
3) Béla Bartòk, ‘Scritti sulla musica popolare’, Bollati Boringhieri, Torino 1977.
4) Constantin Brailoiu, (op.cit.)
5) Frank Harrison, ‘The World of Music’, International Music Council
Unesco, vol. XIX.
6) Alain Daniélou, ‘Traité de Musicologie Comparée’, Unesco Collection, e in Lerici,
Cosenza 1977.
7) C. G. Jung, .....
8) Augusto Romano, ‘Musica e psiche’, Bollati Boringhieri, Torino 1999.
9) E.T.A. Hoffmann, in ‘Krisleriana’ n.4, articolo in Romano A.., (op.cit.)
10) Michel Imberty, ‘Les écritures du temps. Sémantique psychologique de la musique’,
Editions Bordas Dunod, paris 1981 ; traduzione italiana : ‘Le scritture del tempo’,
Ricordi Unicopli, Milano 1990.

11) Mohammed Abu Nasr al Farabi, ‘Fantasia musicale dell’Anno Mille’, in Il Corriere
Unesco, anno XXIV n.6 (giugno) 1973.
12) Bruno Netll, ‘Musicologia per capire i popoli’, in Il Corriere Unesco (op.cit.)
13) Franz Lizst, ‘Des Bohémiens et de leur musique en Hongrie’, Paris s.i.d.
14) Emilio Haraszti, in B. Bartok, (op.cit.)
15) Venelin Krustev, ‘Bulgarian Music’, Sofia Press, Sofia 1978.
16) Vladimir J. Propp, ‘Canti popolari russi’, Einaudi, Torino 1976.
17) Gigliola Venturi, in V. Propp, (op.cit.)
18) Vladimir J. Propp, (op.cit.)
19) Massimo Mila, ‘Breve storia della musica’, Einaudi, Torino 1963.
2o) Massimo Mila, (op.cit.)
21) Edward Lockspeiser, ‘Claude Debussy’, FME, Genova 1990.
22) Johannes Brahms, in ‘Storia della Musica’, The New Oxford History of Music,
Garzanti-Feltrinelli, Milano 1991.
23) Zoltàn Kodàly, ibidem.
24) Béla Bartòk, (op.cit.)
25) Franz Schubert, ‘Winterreise’, in A. Romano (op.cit.)
26) Felipe Pedrell, ‘Cancionero Musical Popular Espanol’, Boileau, Barcelona 1958.
27) Manuel De Falla, in ‘Enciclopedia della Musica’, Garzanti, Milano 1996.
28) A.L. Lloyd, ‘Social Aspects of Andalician Folk Music’, in gruppo Arca ‘Arte Nomade’,
IGIS, Milano 1980.
29) Mario Verdone, ‘Le maschere romane’, newton Compton, Roma 1995.
30) Anton Giulio Bregaglia, in M. Verdone (op.cit.)
31) Angela M. Tettamanti, (op.cit.)


Discografia:

Per un maggiore approfondimento sulla ricerca etnomusicologica si possono consultare numerosi documenti sonori apparsi in pubblicazioni discografiche tutte di notevole interesse: ‘The History of Music in Sound’ edita dalla His Master’s Voice; ‘Ethnic Folkways Library’ Nonesuch Records; ‘Musical Atlas’ EMI e ‘Musical Sources’ per Philips Unesco-Collection; Melodya (Russia); House of Culture of Bucharest; Request Records (Romania); Balkanton (Bulgaria); Jugoton (Jugoslavia); EMI-Columbia (Grecia); Le Chant du Monde, Ocora e Editions Musée de l’Homme (Francia); AIMP Archives Internationales de Musique Popolaire (Svizzera); Hispavox (Spagna).

Copiose in Italia le collane: ‘Dischi Albatros’, ‘I dischi del Sole’, ‘Universo del Folklore’ (Arion) con documenti originali del folklore musicale europeo e del resto del mondo. Ben corredate risultano anche le collane: ‘Musiche dal mondo’ Fabbri Editori; ‘World Music’ La Repubblica; ‘Hemisphere’ EMI; ‘Real World’ di Peter Gabriel, e la più recente ‘Meridiani Musicali’ dell’Editoriale Domus con libretti interessanti ed esaustivi.

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